
10 Ott Cos’è il greenwashing
Greenwashing è la crasi dei termini green (letteralmente verde, simbolicamente viene utilizzata nei contesti di produzioni e pratiche etiche) e whitewashing (letteralmente imbiancare ma inteso come “ripulire” o “nascondere”). Questo inglesismo, di grande attualità, è stato in realtà utilizzato per la prima volta nel 1986. L’ambientalista Westerveld adotto il termine riferendosi alle grandi catene alberghiere che invitavano i clienti a limitare il consumo di biancheria, affinché la struttura potesse impattare meno sull’ambiente. L’iniziativa sembrava però non essere supportata da alcuna prova. L’ambientalista li accusava di voler ridurre le spese di lavanderia e di mascherare un piano di marketing in una proposta di sostenibilità. In poche parole l’azienda che pratica greenwashing tenta di convincere il consumatore che le sue pratiche sono più “pulite” di quello che sono effettivamente. Spesso, purtroppo, il greenwashing è un fake della sostenibilità e la cosa non va migliorando.
Analizziamo insieme 3 casi di greenwashing nel fast-fashion per aiutarvi a riconoscere una vera svolta etica da una semplice operazione commerciale ingannevole. E’ corretto che il consumatore sia consapevole durante le proprie scelte d’acquisto.
H&M e il caso greenwashing della linea “Conscious”
Il colosso H&M dal 2011 concentra energie ed investimenti sulla linea Conscious. Una capsule “green” inserita nelle collezioni che propone fin dalla sua nascita indumenti realizzati con fibre riciclate e prodotti con un impatto ambientale ridotto. Il problema è sorto leggendo i dati dei report di sostenibilità del marchio che dimostrano come i prodotti Conscious rappresentavano una percentuale davvero bassa della produzione, l’1% in alcuni casi. L’H&M Sustainability Report 2018 ha portato la Consumer Authority norvegese a richiamare l’azienda, dichiarando che la promozione della linea Conscious risultava fuorviante nel pubblicizzare i capi definendoli “sostenibili”. Secondo la CA si trattava di pubblicità ingannevole. L’ente ha giustificato l’accusa sulla base dei dati marginali sulla sostenibilità dei prodotti e le informazioni “vaghe” sulle percentuali di fibre riciclate o innovative utilizzate. H&M aveva giustificato il tutto con le limitazioni tecnologiche del momento. Non permettevano un utilizzo più ingente di queste fibre.
Uniqlo
Uniqlo ha inserito dei capi definiti sostenibili. Le proposte vanno dalla riduzione della plastica monouso nei negozi, ai capi realizzati in poliestere riciclato fino ad arrivare al cotone organico. La bomba è esplosa proprio a questo proposito, nel 2020, quando è venuto alla luce il disumano sfruttamento degli Uiguri nella regione dello Xinjiang. La minoranza musulmana viene costretta ai lavori forzati in questi campi di cotone, che rappresentano il 20% della produzione mondiale. Le accuse sono ovviamente state rivolte a Pechino, quindi cosa c’entra il sistema moda? Uniqlo, Skechers, SMCP e Inditex sono stati accusati di continuare a subappaltare parte delle loro produzioni nello Xinjiang dall’ ONG Sherpa, il collettivo Ethique sur l’Etiquette, l’Istituto Uiguro d’Europa, e una donna uigura tramite una denuncia presentata a Parigi. La denuncia vuole portare alla luce “l’impunità di questi attori di fronte alle violazioni commesse nel contesto della globalizzazione economica” (Gianluca Bolelli, Fashion Network).
Asos
Nel settembre 2020 L’Independent ha pubblicato un articolo accusatorio nei confronti di Asos. Asos, poco prima, aveva comunicato la prima collezione sostenibile composta da 29 pezzi. Ognuno accompagnato da un QR code che raccontava la storia della produzione del capo. La collezione nasceva con l’obiettivo di dimostrare che anche una moda di consumo può essere circolare. Il brand ha creato otto principi di sostenibilità per rendere questi capi circolari, il requisito minimo è rispettarne almeno due. Questa è stata la prima affermazione che non ha convinto L’Independent, trattandosi di principi estremamente connessi. Il magazine ha affermato che due principi di Asos prevedono che i capi siano mono-materiale e facilmente scomponibili. Il problema è che Asos non riesce ancora a chiudere il cerchio e ad offrire ai consumatori un servizio di restituzione al fine del riciclo. Si tratta di un work in progress che non può ancora essere definito circolare.
Greenwashing: come evitarlo
Come fare a riconoscere i casi di greenwashing? Assicuratevi che esistano dei report, leggete e indagate sull’identità dell’azienda. Affidatevi a siti come Good On You. Si occupa di stilare classifiche, basate sull’etica dei marchi, e aiuta i consumatori a trovare alternative valide ai brand fast-fashion. I prezzi restano perlopiù sotto la media e le cause possono essere diverse: i lavoratori sono sottopagati, le tinture sono tossiche e non certificate, i tessuti sono di pessima qualità, gli allevamenti ammassano animali sofferenti senza alcuna cura e senza rispettare le norme di tosatura. In mezzo a tutto questo ci sarà qualcosa di verde ma che si fa fatica a vederlo. E’ diventato essenziale che ogni consumatore diventi più consapevole.
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